mercoledì 6 giugno 2018

Oddio, oddio, chi presterà soldi all'Italia ?


In questi giorni mi capita frequentemente di leggere o ascoltare commenti del seguente tenore:

“Come facciamo a pensare di spendere di più, dobbiamo soldi a mezzo mondo !!”

“Se usciamo dall’euro / non paghiamo i debiti / torniamo alla lira chi ci presterà più un centesimo ???”

“Se usciamo dall’euro e svalutiamo, sono terrorizzato per i miei risparmi !!”

E varianti sul tema.

Una prima considerazione, ben presente a chi segue questo blog, è che uno stato emittente della propria moneta non ha necessità di indebitarsi con nessuno.

Se ha bisogno di aumentare il potere d’acquisto a favore dei propri cittadini (mediante azioni di spesa pubblica diretta, oppure rendendolo disponibile a famiglie e aziende tramite minori tasse e maggiori trasferimenti) può farlo semplicemente emettendo moneta.

Il potere d’acquisto in circolazione viene in parte speso e in parte risparmiato. E proprio perché viene in parte risparmiato, è senz’altro utile che lo Stato metta a disposizione dei propri cittadini uno strumento di gestione del risparmio privo di rischi d’insolvenza, e con una remunerazione modesta ma sicura.

Il debito pubblico ha (o aveva, prima della sciagurata decisione di convertirlo in una moneta straniera, l’euro) precisamente quella funzione. Non andrebbe chiamato debito, ma qualcosa tipo “conto di risparmio presso il ministero dell’Economia”. E dovrebbe essere proposto al pubblico con remunerazioni pari all’incirca all’inflazione, o qualcosa di più (un punto, massimo due) in caso di impieghi con vincoli di durata medi o lunghi (i BTP a cinque o dieci anni, per intenderci).

Il vincolo all’incremento del potere d’acquisto in circolazione sotto forma di “debito” non è dato dalla sua dimensione in rapporto al PIL.

Esistono vincoli, ma sono di altra natura: fondamentalmente, i due seguenti.

Evitare eccessi di potere d’acquisto in circolazione, che creino inflazione troppo elevata: ma oggi in Italia siamo sotto all’1%, e la BCE stessa ci ripete quasi ogni giorno che il livello corretto deve essere “inferiore ma prossimo al 2%”. L’inflazione attualmente è troppo bassa, non troppo alta.

Evitare eccessi di potere d’acquisto che aumentino l’import al punto di sbilanciare i saldi commerciali esteri, portandoli in significativo deficit: ma da diversi anni l’Italia genera circa 50 miliardi di surplus commerciale estero.

Tutto ciò premesso, che fondatezza ha l’affermazione secondo la quale “l’Italia vive prendendo soldi a prestito” ?

Il quadro più completo della situazione patrimoniale dell’Italia nei confronti dell’estero è dato dalla “Net International Investment Position” (NIIP).

La NIIP è il saldo algebrico tra lo stock di investimenti effettuati da residenti italiani (privati, aziende e settore pubblico), da un lato; e gli investimenti effettuati in Italia da non residenti, dall’altro.

I dati Banca d’Italia al 31.12.2017 ci dicono che la NIIP italiana è negativa per 115 miliardi di euro, corrispondenti al 6,7% del PIL. E’ vero quindi che è negativa, ma per importi modesti (rispetto alle dimensioni della nostra economia).

Il saldo, inoltre, è in costante miglioramento (aveva raggiunto un picco del -27% circa a inizio 2014) grazie ai surplus commerciali che il nostro paese continua a generare (anche se un po’ in rallentamento nel 2018, principalmente a causa dell’indebolimento del dollaro e dalla risalita del prezzo del petrolio).

Esaminando poi la composizione della NIIP, si rileva quanto segue:

Investimenti diretti azionari


Attivi
441






Passivi
-304
137
Investimenti diretti in strumenti di debito


Attivi
119






Passivi
-157
-38
Investimenti di portafoglio in azioni, fondi comuni e strumenti
Attivi
1.427

di debito (escluso debito pubblico detenuto da non residenti)
Passivi
-545
882
Altri investimenti



Attivi
579






Passivi
-601
-22
Riserve ufficiali della Banca d'Italia




126
Saldi Target2

-450
Debito pubblico detenuto da non residenti



-750
NET INTERNATIONAL INVESTMENT POSITION 31.12.2017


-115

Particolarmente significativi sono gli investimenti netti di portafoglio in azioni, fondi comuni e strumenti di debito, che in buona sostanza corrispondono all’investimento netto all’estero dei risparmiatori italiani.

Il saldo è positivo per 882 miliardi di euro, che è un ammontare superiore al debito pubblico italiano detenuto da non residenti (750 miliardi, pari a circa un terzo del totale in circolazione).

In pratica, il risparmio netto dei residenti italiani è in grado di coprire tutto il debito pubblico. L’Italia non è dipendente dal risparmio estero.

Semplicemente, in contesto di libera circolazione dei capitali, alcuni investitori esteri hanno deciso di allocare una parte delle loro posizioni sul debito pubblico italiano, e analogamente i risparmiatori italiani (direttamente o, più spesso, tramite strumenti di risparmio gestito) hanno parzialmente diversificato i loro attivi rivolgendosi verso titoli di emittenti non italiani.

Va anche notato che nella stragrande maggioranza dei casi, è infondata la preoccupazione dei risparmiatori italiani di subire danni patrimoniali in caso di rottura dell’euro, con conseguente trasformazione in nuove lire dei titoli da essi posseduti.

In primo luogo, un risparmiatore italiano, che fa i conti e spende soldi nella moneta in uso nel suo paese, non subisce danni a meno che la svalutazione si traduca in inflazione. In un contesto di domanda pesantemente depressa, il nesso tra svalutazione e inflazione (già di per sé labile, nel senso che l’impatto inflattivo della svalutazione è di regola parecchio inferiore all’entità di quest’ultima) è prossimo a zero.

Ne è prova (un esempio tra i tanti) l’impatto nullo prodotto dalla rivalutazione del dollaro, che è passato da 1,39 contro euro a inizio 2014, fino a 1,04 a fine 2016, senza alcun apprezzabile variazione dell’inflazione.

In secondo luogo, il risparmiatore italiano ormai da parecchi anni è abituato a diversificare i propri investimenti finanziari (magari non agendo direttamente, ma, come già accennato, in quanto utilizza strumenti di risparmio gestito, che diversificano per emittente, per nazionalità, per valuta ecc.).

In caso di svalutazione, la perdita di potere d’acquisto della parte di portafoglio allocata su titoli italiani sarebbe modestissima se non nulla, mentre si avrebbe un significativo guadagno sulla componente estera.

Liberandosi dai vincoli dell’eurosistema, l’Italia non ha proprio nulla da temere riguardo alla gestione dei fabbisogni finanziari futuri del paese in generale, e della pubblica amministrazione in particolare.

Che poi la rottura dell’euro sia un processo complicato sul piano operativo e politico è un altro discorso: e da queste considerazioni nasce il progetto Moneta Fiscale / CCF.

Ma basta, per favore, con le farneticazioni secondo cui l’Italia dipende dalla carità del prossimo…


17 commenti:

  1. Gentile Marco dalle news pare che la Bce sia in procinto di temrminare il QE entro 6 mesi. Se non ricordo male lei disse che anche dovesse terminare la situazione non dovrebbe degenerare troppo perché i titoli verrebbero reinvestiti o qualcosa del genere. Sempre che la bce non decida di prendere un atteggiamento davvero ostile. Ultimamente direi che ne abbiamo viste abbastanza. Lei ovviamente è sempre dell'avviso che non si spingeranno troppo oltre pena saltare tutta la baracca. Spero che il governo sia pronto a qualsiasi evenienza per il prox futuro. Certo se avviasse subito la sua idea sarebbe pure meglio

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    1. Certamente, anche perché a quel punto se tentassero di forzare la situazione, la nostra fuoriuscita diventerebbe parecchio più semplice: oserei quasi dire imposta dalle circostanze...

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  2. Wendell Gee: Potrei avere la fonte della tabella della NIIP?

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    1. Certo: i dati provengono da qui, pagine 14-16.

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    2. Wendell Gee: Grazie. Ho delle difficoltà a trovare il saldo target2.

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    3. E’ a pagina 16, nelle passività “altri investimenti - banca centrale” - 450.400 milioni.

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  3. Tutto molto interessante, ma mi sembra un grosso errore considerare la posizione patrimoniale complessiva dei risparmiatori italiani ignorando quella individuale. Che esista ricchezza in Italia e' certamente vero, ma l'abilita' dello stato italiano di mobilizzare questa richezza mi sembra molto limitata se devo essere del tutto sincero.

    A meno che uno non immagini tasse patrimoniali mai viste precedentemente, la ricchezza estera degli italiani e' piu' o meno fiscalmente inattaccabile. Anzi vedrei un incremento della bilancia estera come un segno decisamente negativo, in quanto semplicemente sottolinea la mancanza di fiducia degli italiani stessi nel paese.

    L'idea poi che il ritorno alla lira non conicidera' con un massiccio passaggio inflattivo mi sembra difficile da credere. Di certo non e' stata questa l'esperienza in Argentina quando sono usciti dalla dollarizzazione. La verita' a mio parere e' che il ritorno della lira avrebbe massicci effetti ridistributivi, con una massiccia decurtazione dei risparmi degli italiani ed un massiccia riduzione del valore di tante pensioni, che per l'inflazione si ritroverebbero schiacciate sulle pensioni minime. Magari tale ridistribuzione sarebbe pure una buona idea, ma dubito che sarebbe esattamente indolore socialmente.

    La turchia ha una politica monetaria indipendente (e tassi al 18%). La lira turca si e' deprezzata del 50% negli ultimi 5 anni e l'inflazione e' al 12%. E' vero che il gdp deflator si e' alzato solo del 60% (e non del 100%), ma mi sembra difficile dire che proprio non ha nessun effetto. In piu' uno magari dovrebbe anche dire che la media magari nasconde un effetto distributivo non indifferente: tutti i lavoratori che fanno parte del export avranno visto un significativo incremento di benessere relativo nei confronti di insegnati, pensionati, etc... che invece non hanno possibilita' di beneficiare del cambio debole.

    Quanto a dipendere dalla carita' e' ovviamente una bufala: l'Italia paga interessi ai suoi creditori per cui non si posso certo lamentare. Ma credere che lo stato italiano possa semplicemente imporre ai risparmiatori italiani o esteri di fornire credito alle condizioni che preferisce e' altrettanto una bufala. Anche uno stato con una politica monetaria indipendente ha limiti ben precisi come si puo' verificare dalla situazione turca (o dalla situazione italiana pre-euro dove i tassi reali erano molto differenti).

    Potrebbe l'italia post-euro condurre una politica di repressione fininziaria tale da contenere gli effetti inflattivi: forse. Ma considera che richiederebbe quasi certamente l'imposizione del controllo dei capitali. Vedo difficile effettuare tutti questi cambiamenti in un quandro in cui il commercio con l'estero non diventi estremamente piu' difficile...

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    1. Quanto lei dice in merito a Turchia e Argentina non corrisponde per niente all'esperienza italiana post rottura SME, quando l'inflazione addirittura è SCESA, non salita. E quanto ai tassi reali italiani "ben differenti pre-euro" anche questo non è vero: l'Italia ha avuto tassi reali elevati solo nel periodo ANTE rottura SME (sempre lì si torna), e il motivo era la volontà di evitare lo sgancio dal cambio fisso. Immediatamente dopo, i tassi reali e nominali sono caduti di colpo: com'era ampiamente prevedibile.

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    2. Sinceramente mi sembra un analisi piuttosto di parte di quello che e' successo in italia in quegli anni.

      I tassi di interessi sui btp decennali sono si scesi in quel periodo (dal 13.5% al 9% diciamo) dopo l'uscita dallo SME, ma sono anche risaliti piuttosto velocemente al 13.5% del 1994. Tra l'altro in un periodo in cui il deficit scendeva dal 10% del 1992 al 7% del 1995. Senza contare che nel 1994 fu passata la riforma Dini delle pensioni, che cambio' sostanzialmente il quadro previdenziali italiano.

      E' vero che l'inflazione non si impenno' dal 1991 al 1995 (rimase tra il 4% e il 5.5%). Se uno immagina l'uscita dall'euro comporti un miglioramento dei conti pubblici del 3% (piu' una massiccia riduzione dei costi previdenziali), beh posso anche essere d'accordo che non ci sara' inflazione. Non mi pare esattamente che sia questa la proposta...

      Nell'intero periodio i tassi reali non scesero mai sotto il 4.5%. Oggi sono al 2% (piu' o meno). Il debito stesso era abbastanza piu' basso (98.6% nel '91 fino a 121.8% nel 1994).

      Nel 1991 la situazione demografica era comunque abbastanza piu' rosea e uno poteva avere ancora una speranza che la partecipazione femminile al lavoro fornisse uno stimolo sufficiente.

      Negli anni '90 il governo italiano di fronte alla doppia sfida di inflazione e deficit decise di intraprendere quello che e' stata a tutti gli effetti una dollarizzazione (o marchizzazione?) dell'economia. Ha abbandonato la propria moneta e ha ridotto la spesa pubblica cercando di mantenere l'aggancio con il resto dell'Europa, sperando nell'abbattimento delle barrire commerciali come volano dell'economia.

      L'idea che un governo che decida di seguire la soluzione opposta (e quindi svalutazione e moneta debole) possa ottenere gli stessi risualtati in termine di inflazione mi sembra quanto meno discutibile.

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    3. "Nell'intero periodio i tassi reali non scesero mai sotto il 4.5%": certo che sì, ma forse le sfugge che successivamente sono scesi dappertutto. I tassi reali italiani sui BTP decennali tra l'1.1.1993 e il 30.6.1997 sono stati mediamente pari al 6,1%, contro il 6,5% della Svezia e il 5,3% del Regno Unito. Con la sua moneta e senza agganci valutari, i tassi reali dell'Italia sono allineati a quelli dell'Europa Occidentale extra area marco. A riprova che il rapporto debito pubblico / PIL non li influenza in modo apprezzabile.

      "Nel 1991 la situazione demografica era comunque abbastanza più rosea": e rilanciarla non è difficile, basta dare incentivi alla natalità oltre, naturalmente, a far ripartire la crescita economica (che significa più posti di lavoro stabili e più possibilità di creare famiglie). Non è difficile, dicevo: se ci si libera dai vincoli dell'Eurosistema…

      "Negli anni '90 il governo italiano di fronte alla doppia sfida di inflazione e deficit decise di intraprendere quello che è stata a tutti gli effetti una dollarizzazione (o marchizzazione?) dell'economia. Ha abbandonato la propria moneta e ha ridotto la spesa pubblica cercando di mantenere l'aggancio con il resto dell'Europa, sperando nell'abbattimento delle barriere commerciali come volano dell'economia": i risultati provano che l'analisi e le ricette erano sbagliati...

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    4. Per un'analisi di come i tassi reali si sono mossi prima e dopo l'avvento dell'euro, in particolare in Italia, Svezia e Regno Unito, vedi il post del 4.9.2013.

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  4. E' ovvio che un paese puo' gestire la propria moneta in maniera equilibrata. Sia il regno unito che la svezia sono riusciti a gestire il periodo post-SME in maniera eccellente. Ma le condizioni dell'Italia erano fortemente differenti.

    Innanzitutto, sia la svezia che il regno unito partivano da un livello di debito molto minore (attorno al 30% per entrambi all'inizio degli anni '90). Entrambi avevano uno bilancio governativo in positivo prima della crisi del '91-'92.

    Per entrambi la crisi degli anni novanta ha generato un grande debito, ma questo non ha mai raggiunto i livelli del debito attuale. Entrambi i paesi (il regno unito un po' di meno) hanno mantenuto una disciplina fiscale molto piu' ferrea dell'Italia per gli ultimi 20 anni.

    Inoltre entrambi i paesi hanno beneficiato di forti incrementi demografici negli ultimi decenni e non sono intrappolati nella stessa gabbia demografica dell'Italia. Entrambi i paesi hanno tassi di immigrazione significativamente piu' alti e ovviamente questo beneficia sia crescita che i conti dello stato. Il regno unito ha poi anche beneficiato per tutti questi anni degli effetti del petrolio del mare del nord e della financializzazione dell'economia. La svezia eccelle in tecnologie e settori ad alto valore aggiunto.

    Infine l'evoluzione delle politiche sul lavoro (e sulla previdenza) in entrambi i paesi e' completamente differente da quella italiana: il lavoro e' significativamente meno protetto. La pensione MASSIMA statale nel regno unito e' 8000 sterline all'anno.

    I governi italiani avessero stretto la cinghia molto di piu' venti anni fa sicuramente oggi saremmo in una situazione migliore. Ma questo e' un'ovvieta'. La verita' e' che invece hanno cercato di minimizzare questi aggiustamenti attraverso il passaggio all'euro. Putroppo l'opera di riaggiustamente dei conti pubblici non e' stata ma terminata e si e' deciso di mantenere il debito attorno al 100%. Questa non e' stata un imposizione della unione europea ma una decisione italiana.

    I tassi reali si sono certamente abbassati ovunque nei paesi sviluppati. Questo e' un fenomeno mondiale.

    E' impossibile dire cosa sarebbe successo se l'Italia avesse seguito l'esempio della Svezia: di certo e' possibile immaginare un Italia in una posizione molto migliore. Ma solo se si immagina un Italia che ha risolto i suoi grandi problemi interni in una situazione di crisi simile a quella attuale. Per ogni Svezia ci sono diversi esempi di paesi che non si sono mai risollevati da crisi simili. Ma forse e' vero che Turchia e Argentina sono esempi troppo negativi.

    Francamente mi basta leggere la sua dichiarazione sulla crescita demografica per perdere la speranza. Come si puo' credere che ci siano facili soluzioni alla crisi delle nascite in Italia? Sono questioni che toccano le decisioni personali piu' importanti. Pensare che si possa cambiare la mentalita' di intere generazioni in poco tempo mi sembra assurdo. Senza contare che ci vorrebbero 20 anni (o piu') perche' un nuovo baby boom abbia effetti sull'economia potenziale.

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    1. Svezia e Regno Unito hanno gestito meglio dell’Italia la situazione post SME ? E come no: NON sono entrati nell’euro. Quella è stata di gran lunga la decisione più importante...

      Se l’Italia avesse fatto politiche ancora più austere per ridurre più velocemente il debito (o meglio per provarci) oggi starebbe ancora peggio. Lei riconduce tutto a un problema di debito, ma il Giappone sta a dimostrare che in assenza d’inflazione il debito pubblico non è un vincolo.

      E non lo è neanche la demografia - anche qui il Giappone insegna. Fermo restando che rilanciare la natalità è fondamentale per la vitalità della nazione. Poi è ovvio che la ripresa delle nascite ha un impatto sulla forza lavoro potenziale a distanza di una ventina d’anni. Ma avviare il processo non è nulla di complesso - se riprendiamo in mano le nostre leve di politica economica.

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  5. Ma nessuno fiata anche ipoteticamente di una possibile uscita dell'euro. Da Borghi a Bagnai...a Savona ..quest'ultimo nel suo ultimo comunicato dice che bisogna rafforzare l'UE e l'Euro...al ministro del Tesoro ...che si presenta in termini di ragionamento che è dentro gli standard "UE"..cioè che non si discute la moneta euro etc etc

    Anche quando si parla di Piano B...se ne parla specificando e strasottolineando che è solo un programma di eventuale emergenza, quasi che si abbia paura di suscitare il timore, che voglia dire "qualcosa di più " nelle intenzioni…

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    Ma è una strategia obbligata ? nel senso che si dice quel che non si pensa e ci si muove poi di fatto nella direzione opposta di quel che si è detto ...oppure stan semplicemente percorrendo la strada di strappar qualcosa con l'intenzione reale di non mettere in discussione (anzi di neanche "osar" pensarlo…) l'euro??

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    1. L’uscita dall’euro non è nel programma di governo, e risolvere le disfunzioni dell’euro senza romperlo è possibile: tanto è vero che è l’argomento di questo blog... certo, se comportamenti ALTRUI la rendono inevitabile è un altro discorso: e nel caso è indispensabile essere pronti...

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  6. ...E quindi è indispensabile essere pronti.

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  7. ...E quindi è indispensabile essere pronti.

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