sabato 9 gennaio 2016

Euro e stagnazione della produttività italiana

Ormai da diversi anni, un tema oggetto di intenso dibattito è la stagnazione delle produttività che l’economia italiana ha sperimentato in prossimità dell’ingresso nell’euro, e ancora di più successivamente.

Sul tema si è espresso tra gli altri Alberto Bagnai, constatando che in Italia, da metà degli anni Novanta, la crescita della produttività reale del lavoro (linea ALP) si è sostanzialmente arrestata, in corrispondenza con l’”aggancio” della lira a quello che sarebbe poi stato il cambio d’ingresso nell’euro (1936,27, e 990 contro marco).





Più di recente, Guido Iodice ha fatto notare che il grafico di Bagnai mette in correlazione la crescita della produttività con il cambio nominale lira / marco. Questo, nota Iodice, è inesatto perché il confronto va fatto con il cambio reale (cioè con il cambio corretto per tener conto delle differenze di inflazione tra Italia e Germania).



Effettivamente, se confrontiamo produttività e cambio nominale (il “grafico Bagnai”, il primo sopra riportato) si nota che la produttività italiana ristagna, sostanzialmente, a partire dal momento in cui il cambio con la Germania si blocca, mentre in precedenza le due curve salivano all’incirca di pari passo.

Ma se confrontiamo produttività e cambio reale (il “grafico Iodice”) si notano fenomeni differenti. La produttività italiana ha continuato a salire sia in anni in cui il cambio reale si rafforzava (1976-1992) sia successivamente alla rottura dello SME, quando si è (fine 1992-1994) fortemente indebolito.

Per far luce sul tema, è utile prendere in considerazione la legge di Kaldor-Verdoorn, secondo la quale la produttività tende a salire in funzione del prodotto fisico di un sistema economico.

La ragione è intuitiva. Se un’economia cresce, ci sono più risorse a disposizione, e più incentivo ad investirle in nuovi impianti e tecnologie più avanzate. E ci sono anche maggiori economie di apprendimento – più si fa, e meglio s’impara a fare, banalmente detto.

Fino all’avvento dell’euro, la crescita reale dell’economia italiana è stata soddisfacente, in linea con le medie europee. E la produttività è aumentata di pari passo. Qui un altro ben noto grafico di fonte Bagnai mostra il graduale avvicinamento del PIL procapite italiano rispetto alle medie UE15 tra il 1970 e metà degli anni Novanta (e la drammatica successiva inversione di tendenza).



Il rafforzamento del cambio reale del periodo precedente al 1992 non ha rallentato la crescita italiana, ma ha deteriorato le partite correnti e in particolare il saldo commerciale estero. Negli anni tra il 1980 e il 1992, periodo nel quale il cambio reale italiano si rafforzava, le partite correnti in percentuale del PIL sono state mediamente passive in misura pari all’1,5% circa, e del 3% nel 1992 – anno in cui l’Italia è stata costretta ad abbandonare lo SME.

Il riallineamento valutario si è accompagnato a un’inversione di segno delle partite correnti, fino a un surplus del 2,5% circa nel 1996. Di pari passo all’”aggancio euro” si è poi avuta una riduzione di questo surplus, fino a raggiungere una sostanziale parità intorno al 1998-2000.

Partite correnti in equilibrio, in situazione di domanda interna italiana a livelli normali (non euforici né depressi), implicano che il cambio di ingresso nell’euro non era, almeno inizialmente, “sbagliato”.

La crescita italiana ha rallentato in quegli anni, ma l’indiziato principale non è il cambio bensì l’adozione di politiche economiche restrittive, finalizzate a rientrare nei parametri del trattato di Maastricht: in particolare, con riferimento a inflazione e rapporto deficit pubblico / PIL.

A questo punto il rallentamento della crescita ha prodotto la stagnazione della produttività. Nel frattempo la Germania guadagnava non tanto in termini di produttività, ma di competitività – attuando politiche di forte contenimento salariale.

L’Italia è quindi entrata in un circolo vizioso. La combinazione di politiche economiche restrittive, di stagnazione della produttività e di peggioramento della competitività ha agito negativamente sulla domanda, sulla crescita e di conseguenza (Kaldor – Verdoorn) ha ulteriormente penalizzato la produttività.

La crisi finanziaria del 2008 ha ulteriormente enfatizzato questa situazione negativa. E l’austerità adottata dal 2011 in poi, in diretta conseguenza della crisi dei debiti sovrani, ancora di più.

Il nesso tra euro e stagnazione della produttività quindi esiste ed è estremamente significativo, ma per ragioni più variegate rispetto a una semplice causazione cambio sopravvalutato ==> ristagno della produttività.

L’euro ha svolto un ruolo in quanto:
UNO, la necessità di rispettare i parametri di Maastricht ha costretto l’Italia ad adottare e mantenere politiche fiscali restrittive.
DUE, i guadagni di competitività tedeschi in un regime di monete nazionali e cambi flessibili sarebbero stati, con ogni probabilità, gradualmente compensati dalla rivalutazione del marco contro la lira. Questo non è avvenuto, ed ha ulteriormente penalizzato la crescita italiana.

Ma:
TRE, l’euro entra ancora di più in gioco a partire dal 2011, in quanto le tensioni e gli squilibri commerciali tra Nord e Sud dell’Eurozona hanno fatto temere che potesse verificarsi la rottura della moneta unica. Questo ha portato, tra le altre cose, al calo di valore dei titoli di stato sudeuropei rispetto a quelli dell’ex area marco, quindi all’innalzamento degli spread sui tassi d’interesse.

Quanto sopra è una diretta conseguenza dell’euro, in quanto la pressione al ribasso sul valore dei titoli di stato sud-eurozonici avrebbe preso la forma – in regime di debiti espressi in monete nazionali, e di cambi flessibili – di un indebolimento del cambio (che tra l’altro sarebbe stato un fattore di riequilibrio dell’economia reale) e non della salita degli spread.

Peggio ancora, come condizione per i sostegni forniti dalla BCE ai debiti pubblici del Sud, sono state richieste forti restrizioni fiscali (l’austerità) in una situazione in cui la domanda non aveva ancora recuperato gli effetti della crisi Lehman: ulteriore pesante impatto negativo sul PIL e sulla produttività.

Tutto questo non assolve i governi italiani (né le autorità UE) dall’imputazione di aver commesso vari e gravi errori nell’impostazione delle politiche economiche degli ultimi quindici anni.

Anche in presenza dell’impossibilità di riallineare il cambio, l’Italia avrebbe potuto adottare politiche di riequilibro della competitività nei primi anni dell’euro, non necessariamente comprimendo i salari ma ad esempio riducendo il cuneo fiscale (e utilizzando a tal fine uno sforamento dei vincoli di Maastricht nel periodo – principalmente 2002-2004 - in cui sforava la Germania).

E soprattutto, nel 2011 (1) Monti non avrebbe dovuto accettare l’adozione di livelli di austerità così massicci (sotto forma principalmente di imposte su patrimonio e consumi e di tagli di spesa pensionistica) e (2) nella misura in cui questi interventi fossero stati attuati, almeno in parte si sarebbe dovuto utilizzarli (anche qui) per ridurre il cuneo e quindi il costo del lavoro lordo per le aziende.

E’ comunque indubbio che l’euro, o più propriamente i vincoli dell’Eurosistema e l’insieme delle politiche adottate per cercare, in qualche modo, di evitarne la rottura, hanno una stretta relazione con il declino della produttività italiana.

La soluzione passa dall’uscita da questi vincoli. Il che si attua mediante politiche espansive della domanda, abbinate a un miglioramento della competitività delle aziende (per evitare l’insorgere di squilibri commerciali esteri). Miglioramento della competitività che, anche in presenza dell’impossibilità di riallineare il cambio, può essere ottenuto con una forte riduzione di contributi e oneri a carico delle aziende.

Il progetto CCF è una strada possibile per ottenere questi risultati: uno strumento monetario parallelo – i Certificati di Credito Fiscale – con cui effettuare azioni di spesa pubblica, trasferimenti ai privati, e assegnazioni alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti (riducendo di conseguenza il costo del lavoro effettivo).

La rottura della moneta unica e il conseguente riallineamento valutario non è quindi l’unica modalità possibile attraverso cui risolvere l’Eurocrisi. Ma l’uscita dai vincoli dell’Eurosistema (nella sua impostazione attuale) è assolutamente indispensabile.

Con la ripresa di domanda, PIL e occupazione, tutto lascia pensare che riprenderà a salire anche la produttività delle aziende italiane. La legge di Kaldor-Verdoorn funziona in entrambe le direzioni.


Il ristagno della produttività italiana non deriva da discontinuità tecnologiche, da sconvolgimenti geopolitici, dall’inadeguatezza della classe imprenditoriale italiana. Niente di tutto questo. E’ la conseguenza di un sistema di governance economico-monetario sbagliato, e delle politiche errate e insostenibili con cui prima lo si è introdotto, e poi si è cercato di rabberciarne le disfunzionalità.

mercoledì 6 gennaio 2016

Assurdità del bail-in

Una considerazione in merito alla direttiva UE entrata in vigore il 1° gennaio 2016, che prevede la possibilità di utilizzare depositi e conti correnti ordinari della clientela per risanare istituti di credito in difficoltà (l’ormai celebre, o famigerato, “bail-in”).

Se la banca centrale stampasse moneta per coprire (o meglio evitare) la riduzione di valore di conti correnti o depositi, non si avrebbe alcun incremento della quantità di moneta esistente né della capacità di spesa presente nell’ambito del sistema economico. L’emissione monetaria della banca centrale compenserebbe l’erosione di moneta bancaria.

Non ci sarebbe quindi motivo di temere il prodursi di inflazione indesiderata. Al contrario, si eviterebbero tensioni deflattive e depressive, che potrebbero diventare disastrose se l’insolvenza di una o più banche minasse la fiducia complessiva nella solidità del sistema.

In pratica, sarebbe un intervento risolutivo e sostanzialmente privo di costi.

L’idea di “stabilizzare” il sistema bancario-finanziario mettendo a rischio i depositi bancari (adducendo che in tal modo si disincentivano le azioni speculative del management) è insensata. I comportamenti imprudenti delle istituzioni finanziarie devono essere prevenuti dalla vigilanza sul sistema creditizio, che compete alla Banca Centrale.

Se la BC fallisce in questo obiettivo, è corretto che sia lei stessa a coprire gli ammanchi subiti da chi ha semplicemente depositato soldi su un conto bancario, per finalità operative o anche solo per utilizzare un servizio di custodia (e che quindi non ha mai inteso effettuare investimenti rischiosi).

Anche perché è assurdo pretendere che un semplice depositante o correntista sia in grado di valutare l’affidabilità di una banca – compito estremamente difficile e aleatorio anche per gli esperti.

L’alternativa a falcidiare i conti bancari non è, come si sente dire, necessariamente l’intervento del contribuente, ma quello della Banca Centrale.

Non va poi dimenticato che il deterioramento degli attivi bancari italiani non deriva, nella stragrande maggioranza dei casi, da comportamenti irresponsabilmente speculativi del management, ma da una crisi economica che dura da oltre sette anni (e che i meccanismi di “funzionamento” dell’Eurozona impediscono di risolvere).

Naturalmente, quando i nodi arrivano al pettine, gli istituti peggio condotti vanno in difficoltà per primi. Sono fermamente convinto, però, che la malagestione (ad esempio) di Banca Etruria non abbia raggiunto livelli più criticabili rispetto a vicende passate tipo Banco Ambrosiano. Che sono però state risolte senza perdite per depositanti o obbligazionisti.

Deve esistere una chiara e netta linea di demarcazione tra depositanti e correntisti che utilizzano la banca come servizio, per finalità operative e di custodia – i quali devono essere integralmente tutelati - e investitori in attività di rischio, che puntano a una redditività più o meno elevata e accettano (consapevolmente) rischi più o meno alti.


Meglio ancora sarebbe introdurre una normativa analoga al Glass-Steagall Act USA del 1933 (introdurre nell’Eurozona, reintrodurre negli USA che l’hanno – commettendo un grave errore – abolito nel 1999). Separare, in pratica, l’attività di banca commerciale da quella di banca d’investimento, impedendo al medesimo gruppo di svolgerle entrambe.

lunedì 4 gennaio 2016

Certificati di Credito Fiscale su Voxeu.org

Qui l'articolo pubblicato da Voxeu.org, insieme a Biagio Bossone, prendendo spunto dal report Mediobanca.

Mi piace la denominazione di "Helicopter Tax Credits" che ovviamente sono sempre i "Tax Credit Certificates" cioè i Certificati di Credito Fiscale cioè i CCF cioè la Moneta Fiscale...

Ovviamente le vicende dell'assicurazione sui depositi bancari che non c'è e della ripresa economica che non parte aumentano l'urgenza della questione, se mai ce ne fosse stato bisogno. Ne riparlo a brevissimo...

domenica 3 gennaio 2016

Il QE che serve a Draghi e all’Eurozona è un altro

Come previsto, poche settimane fa la BCE ha ampliato il programma di Quantitative Easing avviato nel marzo scorso, estendendone la durata e le dimensioni e allargando la gamma di titoli oggetto di possibile acquisto.

La mossa era attesa, e in effetti le aspettative del mercato erano per un intervento anche più corposo. Il cambio euro / dollaro, poco al di sopra di 1,05 prima dell’annuncio, invece di puntare verso la parità come molti si attendevano si è invece rafforzato, assestandosi intorno all’attuale 1,09.

Il problema è però un altro, molto più di fondo. Non c’è nessuna indicazione che il QE stia conseguendo il suo obiettivo, quello di innalzare l’inflazione dell’Eurozona, attualmente tendente a zero, verso l’obiettivo BCE di un livello “inferiore ma prossimo” al 2%.

L’euro-QE soffre del difetto di base (identificato da molti economisti e commentatori parecchio tempo addietro, peraltro) di attuare azioni finalizzate a immettere liquidità nel circuito finanziario, senza però incrementare il potere d’acquisto disponibile per aziende e famiglie.

Di conseguenza, non c’è impatto apprezzabile su PIL e occupazione. L’Eurozona rimane bloccata nell’attuale contesto di stagnazione, domanda depressa e disoccupazione massiccia. E l’inflazione non risale.

Esistono strategie alternative ? sì, e non sono neanche particolarmente complesse da definire, né da attuare.

La più semplice e diretta è un’azione di “Helicopter Money”. La BCE potrebbe immettere potere d’acquisto – banalmente detto: soldi, euro – nelle tasche di cittadini e aziende, e anche dei governi (a supporto di programmi di investimenti pubblici) in misura adeguata a rivitalizzare domanda e PIL, e di conseguenza anche i prezzi.

Questa immissione di potere d’acquisto, tuttavia, non serve nella stessa misura in tutti i paesi dell’Eurozona. E’ fortemente necessaria in Italia, ad esempio, meno in Francia, poco o nulla in Germania. L’attuazione di interventi differenziati può costituire una difficoltà, non tanto a livello tecnico quanto alla luce dei trattati, e più ancora in sede di decisione politica. La Germania potrebbe obiettare, in buona sostanza, che si sta creando potere di spesa in euro, indirizzandolo ad alcuni paesi in misura più accentuata rispetto ad altri.

Un modo di superare questa obiezione è che singoli paesi dell’Eurozona emettano Certificati di Credito Fiscale – titoli utilizzabili per ottenere sgravi futuri nei pagamenti di imposte NAZIONALI – e li assegnino a cittadini e aziende, senza contropartita.

I CCF sono uno strumento di natura quasi-monetaria, e di fatto costituiscono una modalità per attuare un’azione di “Helicopter Money” selettiva nell’ambito di un gruppo di paesi che condividono la stessa valuta (senza però arrivare alla “rottura” dell’euro).

La BCE potrebbe a questo punto inserire i CCF nazionali nel ventaglio delle attività finanziarie acquistabili nell’ambito del programma di QE.

I CCF avrebbero un valore di mercato: gli assegnatari potrebbero convertirli in euro, o anche utilizzarli come corrispettivo in operazioni di compravendita. Il potere d’acquisto in circolazione aumenterebbe, con benefici su domanda, produzione e occupazione, e conseguentemente anche sui prezzi – riportando così l’inflazione verso il target BCE.

Non essendo una forma di debito (non sono infatti soggetti a rimborso) i CCF non entrano nel computo dei parametri rilevanti per il Fiscal Compact, per i patti di stabilità e per i trattati UE in genere (in particolare, deficit pubblico / PIL e debito pubblico / PIL).

Ogni singolo paese dovrebbe anche modulare le assegnazioni di CCF, attribuendone una parte alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenute. Questo comporta un immediato miglioramento di competitività ed evita che l’azione espansiva sulla domanda interna produca squilibri nei saldi commerciali esteri. La migliore competitività implica infatti maggiori esportazione nette, compensando la crescita dell’import che, a parità di condizioni, si genera quando cresce la domanda interna.

I CCF sono anche utilizzabili per interventi di spesa sociale – reddito minimo, integrazioni pensionistiche, miglioramento dei sussidi di disoccupazione – e per finanziare o co-finanziare programmi di investimenti pubblici.

I paesi emittenti di CCF possono inoltre adottare un sistema di “clausole di salvaguardia non procicliche”. Se in un determinato anno gli obiettivi di finanza pubblica risultano difficili da centrare, a causa di shock macroeconomici esterni o per qualsiasi altra ragione, gli interventi correttivi possono consistere non in tagli di spesa o in aumenti di tasse “secchi”, bensì compensati da integrazioni nelle assegnazioni dei CCF.

In tal modo non si toglie potere d’acquisto dal sistema economico, ma si sostituiscono (nella misura necessaria) euro con CCF. Questo evita il gravissimo problema insorto dal 2011 in poi: le azioni di consolidamento delle finanze pubbliche effettuate in vari stati dell’Eurozona hanno prodotto un forte inasprimento della depressione economica, con pesanti conseguenze su PIL e occupazione. Il che ha minato gli obiettivi stessi di riduzione del debito pubblico, e creato proprio gli effetti deflattivi che oggi la BCE sta, con grandi difficoltà, cercando di contrastare.

Va sottolineato che il progetto CCF non richiede, per essere efficace, che i titoli emessi vengano acquistati dalla BCE. Un titolo utilizzabile per ridurre pagamenti altrimenti dovuti alle amministrazioni pubbliche nazionali, per tasse, imposte, contributi o qualsiasi altra causale, ha valore a prescindere dal fatto che la BCE sia disponibile ad acquistarlo. Il valore è infatti garantito dall’accettazione da parte dello stato emittente.


Comunque, l’inserimento dei CCF nel programma QE darebbe evidenza al fatto che si sta procedendo in modo coordinato e costruttivo per avviare una forte ripresa dell’economia dell’Eurozona, ponendo le basi per la sua stabilizzazione e promuovendo, finalmente, occupazione e coesione sociale. 

domenica 27 dicembre 2015

Le banche devono poter fallire ?

Una banca può fallire ? Sì. Ma deve esistere una linea di separazione netta e inequivocabile tra risparmio e investimento. L’investimento è rischioso, il risparmio non deve esserlo.

Negli USA esiste una garanzia federale sui depositi fino a 250.000 dollari (o anche più alta, se la banca decide di pagare un premio supplementare alla FDIC, la Federal Deposit Insurance Corporation). Fino a quella dimensione, un deposito bancario è sicuro quanto un titolo di Stato di pari scadenza.

Solo i depositi di dimensione eccedente la garanzia federale sono investimenti rischiosi. E il titolare di depositi di quella dimensione ha i mezzi per valutare il rischio connesso e per richiedere un rendimento adeguato.

I depositi di dimensione inferiore sono, al contrario, l’equivalente di banconote. Non le tieni sotto il materasso per motivi di praticità: ma come per le banconote, non esiste, NON DEVE ESISTERE il rischio di perderli per un qualsiasi tipo di problema che possa verificarsi in capo alla banca depositaria.

L’assicurazione statale sui depositi è nata negli anni Trenta, per eliminare le “corse agli sportelli” che sono stati un fattore decisivo nell’aggravare la Grande Depressione (e molte altre crisi bancarie e finanziarie in epoche precedenti).

Nell’Eurozona l’assicurazione sui depositi è stata, in buona sostanza, abolita, e si pretende che anche il titolare di un normale conto corrente di modesto importo (e rendimento nullo) si formi un’opinione in merito al rischio di insolvenza della banca. Una valutazione così complessa ed aleatoria da essere, spesso, fuori dalla portata anche degli specialisti.


L’Eurosistema è una follia. O una truffa.

sabato 26 dicembre 2015

Ancora sulla gestione dei saldi commerciali esteri nell’ambito del progetto CCF

Una riflessione aggiuntiva in merito a quanto detto nell'ultimo post.

Il progetto CCF prevede di evitare squilibri nei saldi commerciali esteri in quanto abbina (a) un’azione espansiva della domanda interna con (b) la riduzione del costo del lavoro lordo per le aziende che producono in Italia (allocando a queste ultime una parte delle erogazioni di CCF, in funzione dei costi di lavoro sostenuti).

In tal modo la competitività delle aziende italiane migliora, consentendo una crescita delle esportazioni nette adeguata a compensare l’aumento dell’import di materie prime e di altri beni o servizi non sostituibili con produzione interna.

Ora, va sottolineato che questo beneficio è tanto maggiore quanto più il sistema economico che attua il progetto CCF parte da una situazione di sottoutilizzo delle risorse produttive interne (“output gap”).

La migliore competitività prodotta dai minori costi di lavoro lordo può essere sfruttata dalle aziende (1) riducendo i prezzi e aumentando le quantità prodotte e l’occupazione interna.

Oppure, alternativamente (2) lasciando i prezzi invariati e incrementando i profitti, ma senza aumentare né la produzione né l’occupazione.

L’incentivo ad attuare quando descritto sub (1) è tanto più accentuato quanto più in partenza le risorse produttive sono sottoutilizzate: in tal caso, infatti, la produzione potrà essere accresciuta con necessità molto inferiori di sostenere incrementi di costi fissi e/o investimenti in maggiore capacità produttiva. L'incremento di produzione e vendite risulterà, quindi, decisamente più redditizio.

L’allocazione di CCF a riduzione dei costi di lavoro lordi delle aziende è quindi particolarmente efficace, in questo momento, per l’Italia, appunto perché la capacità produttiva è fortemente sottoutilizzata.

mercoledì 23 dicembre 2015

CCF, riallineamenti valutari e saldi commerciali esteri



Di frequente, mi vengono sollevate obiezioni, o richiesti chiarimenti, in merito a come, nell'ambito del progetto CCF, si gestisce l’equilibrio della bilancia commerciale estera.

Emettere Certificati di Credito Fiscale consente, a singoli stati membri dell’Eurozona, di effettuare azioni espansive della domanda mettendo in circolazione potere d’acquisto: e questo tramite uno strumento “quasi-monetario” – i CCF, appunto – che non è soggetto a rimborso (non è quindi debito) e non ha bisogno di essere garantito dalla BCE. La garanzia di valore dei CCF sta nel fatto che saranno utilizzabili per ridurre obbligazioni finanziarie (in primo luogo tasse e imposte) altrimenti dovute alla pubblica amministrazione del paese emittente.

In assenza di un riallineamento valutario, l’incremento di domanda interna produrrebbe un aumento di importazioni e tenderebbe quindi a peggiorare i saldi commerciali esteri. Le controindicazioni sono due: riduzione dell’effetto espansivo della manovra sul PIL, e incremento dell’indebitamento finanziario netto verso l’estero.

Per questo motivo, il progetto CCF prevede (vedi punto 9, qui) che una parte delle emissioni di CCF vengano destinate alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti. In particolare, su una dimensione di emissioni annue che può raggiungere i 200 miliardi, le allocazioni alle aziende del settore privato potrebbero arrivare a 80, a fronte di costi di lavoro totali lordi dell’ordine di 450.

Questo equivale a una riduzione effettiva dei costi di lavoro vicina al 20%, che è l’ordine di grandezza della perdita di competitività subita dall’Italia nei confronti di altri stati membri dell’Eurozona, quali, in particolare, la Germania. Ed è anche l’ordine di grandezza di un possibile riallineamento valutario, tra “Nuova Lira” e “Nuovo Marco”, se l’euro si spaccasse.

L’allocazione di CCF alle aziende può essere resa più efficace, ad esempio privilegiando i settori più esposti alla concorrenza internazionale. O più semplicemente evitando di distribuirli a quelli per loro natura poco o nulla esposti (finanziario, assicurativo, concessionari di servizi pubblici rivolti in modo pressoché esclusivo al mercato domestico) e concentrando l’allocazione sugli altri.

E’ anche possibile e opportuno, in sede di allocazione, privilegiare le aziende localizzate nel Sud Italia, in modo da attenuare le differenze di competitività rispetto al Nord e avviare finalmente a soluzione il problema storico dell’economia italiana (prima dell’avvento dell’euro…): il dualismo Nord - Mezzogiorno.

Qui di seguito, rispondo ad alcune delle obiezioni più frequenti che mi vengono sottoposte in merito al tema del recupero di competitività e degli effetti sui saldi commerciali esteri.

D. Focalizzare l’attenzione sul recupero di competitività e sul beneficio per i saldi commerciali non significa adottare un approccio mercantilista, “beggar-thy-neighbor”, quello stesso che viene costantemente rimproverato alla Germania ?
R. L’obiettivo del progetto CCF è il rilancio di domanda, interna, PIL e occupazione. L’azione sul costo del lavoro lordo e sul recupero di competitività NON è finalizzata ad incrementare il surplus commerciale estero, ma a lasciare sostanzialmente invariato il saldo import-export, senza quindi sottrarre domanda netta ai partner commerciali esteri.
Peraltro, anche nell’eventualità di svalutazione della Nuova Lira conseguente a un break-up dell’euro, l’uscita dell’Italia dalla crisi richiederebbe politiche espansive della domanda interna; il riallineamento valutario sarebbe, anche in questo caso, utile allo scopo di non creare sbilanci nei saldi esteri, ma del tutto insufficiente DA SOLO a produrre una significativa ripresa dell’economia italiana.

D. Un riallineamento valutario agisce in maniera automatica (i prodotti italiani costano meno di prima, e quindi diventano più concorrenziali rispetto ai prodotti esteri), l’allocazione di CCF a riduzione dei costi di lavoro richiede invece che le aziende italiane prendano atto dei minori costi produttivi ed abbassino i prezzi: potrebbero non farlo.
R. In realtà i prezzi praticati dalle aziende italiane all’export non sarebbero espressi in Nuove Lire, ma in valuta straniera: così come in passato non si esportava con prezzi in lire, ma in dollari, marchi, yen eccetera. Anche nell’eventualità di uscita dall’euro il beneficio del riallineamento per essere conseguito richiede una modifica dei listini. Questo in passato non è mai stato un problema e non si vede perché dovrebbe esserlo oggi implementando il progetto CCF.
Il vantaggio automatico della svalutazione, senza passare tramite un adeguamento dei prezzi, si avrebbe invece per le aziende che vendono in Italia in competizione con prodotti esteri, dato che i prezzi sul mercato domestico sono evidentemente, in linea di massima, espressi in moneta nazionale. Comunque se in passato adeguare i listini non è mai stato un problema per le aziende esportatrici, non si vede perché dovrebbe essere diverso per chi compete (sul mercato italiano) con produttori esteri, dato che la natura del vantaggio conseguibile, e il modo per ottenerlo, sono i medesimi.
  
D. Alcune azioni di contenimento del cuneo fiscale, quindi di riduzione dei costi di lavoro lordo (mediante sgravi sui contributi sociali e previdenziali a carico delle imprese) sono stati effettuati, in particolare dal governo Prodi nel 2007. I benefici sui saldi commerciali esteri e sull’economia in generale non si sono però visti. 
R. Si è trattato di azioni di impatto modesto in quanto le dimensioni degli interventi e le somme stanziate sono state di pochi miliardi di euro. Le stime della perdita di competitività dell’Italia nei confronti della Germania in ogni caso tengono conto dell’impatto di queste azioni. In loro assenza, la perdita di competitività sarebbe stata magari del 22% invece che del 20%: il che non significa che le azioni fossero sbagliate in sé, ma che era del tutto inadeguato il loro ordine di grandezza.