Quando si parla della posizione dell’Italia nel contesto economico internazionale, un commento ricorrente è che il nostro paese “manca di credibilità”. E questo ne limiterebbe lo spazio di azione anche se uscissimo dall’euro tornando alla lira, o se non ci fossimo mai entrati, o se iniziassimo a emettere CCF.
Ora, questo commento lo formulano in genere persone che si fanno facilmente influenzare dai titoli di alcuni giornali stranieri, magari della Bild (che ama il leitmotiv “italiani pizza mafia mandolino baffo nero”) o del Financial Times (che spesso scrive cose simili, in termini più eleganti).
Se invece vogliamo dare un contenuto un po’ più serio e solido alla nozione di “credibilità”, dobbiamo fare riferimento ad altri fattori. In particolare, alla qualità del sistema produttivo e alla capacità di mantenere in equilibrio i saldi commerciali esteri in condizione di pieno impiego.
Un’economia dotata di un tessuto aziendale di alta qualità è in grado finanziare con l’export le importazioni di materie prime, e di sostituire con produzioni interne la grande maggioranza delle altre.
In questa situazione, una svalutazione reale (cioè superiore a quella giustificata dalle differenze di inflazione e di costi per unità di prodotto) produce un effetto espansivo sulle esportazioni nette, e limita a livelli bassissimi (o nulli, in condizioni di sottoutilizzo delle risorse produttive: vedi qui) il pass-through svalutazione-inflazione.
L’impatto della svalutazione sull’inflazione è modesto perché i concorrenti esteri non possono aumentare i prezzi di vendita in misura pari alla svalutazione: se lo fanno, perdono mercato a vantaggio dei produttori locali (appunto perché la capacità di sostituire le importazioni è elevata).
Questa è la situazione dell’Italia, che la pone in una categoria del tutto diversa rispetto a quella di un tipico paese sudamericano o africano.
La speculazione ? i mercati finanziari ? l’Italia, con la sua moneta e con un regime di cambio flessibile, non può essere spinta al default dai mercati. Può subire pressioni sul cambio, ma una svalutazione reale genera, per la ragione sopra descritta, effetti di competitività e di miglioramento dei saldi commerciali che invertono rapidamente la tendenza.
Detto altrimenti, se l’Italia uscisse dall’euro, un riallineamento valutario del 20% rispetto al Nord Europa ci starebbe. Del 50% no: rientrerebbe rapidamente, sarebbero i tedeschi stessi a dover intervenire per limitare l’overshooting.
E, tenuto conto anche (per non dire soprattutto) dell’attuale pesantissimo sottoutilizzo di potenziale produttivo, potrebbe immettere potere d’acquisto nell’economia e incrementare domanda, produzione e occupazione, senza alcun impatto preoccupante sull’inflazione.
Un paese privo di un sistema produttivo della nostra qualità può invece trovarsi in una situazione problematica a causa di una svalutazione reale. Peraltro, non la risolve indebitandosi in valuta estera forte, cioè sostituendo un rischio di inflazione con un rischio di default. Anzi.
Questo è il motivo per cui l’Italia, con la sua moneta, era – e sarebbe di nuovo se uscisse dall’euro – un paese ALTAMENTE credibile. Perché il vero fattore di credibilità, il fattore reale rilevante, è la capacità di concepire e produrre beni richiesti dappertutto. E l’Italia sotto questo profilo sta un passo indietro rispetto alla Germania, ma dieci, cinquanta o cento passi avanti rispetto a un paese del terzo mondo.
Su questo si
valuta la “credibilità”. Qualunque cosa dicano le chiacchiere da bar, categoria
a cui sono assimilabili quasi tutti gli articoli della Bild, e parecchi del Financial
Times.
Giovanni Albin: Ma è la credibilità politica che ci manca...
RispondiEliminaNon la credibilità. La volontà di fare l'interesse del paese.
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