Come previsto,
poche settimane fa la BCE ha ampliato il programma di Quantitative Easing avviato
nel marzo scorso, estendendone la durata e le dimensioni e allargando la gamma
di titoli oggetto di possibile acquisto.
La mossa era attesa, e in effetti le aspettative del mercato erano per un intervento anche
più corposo. Il cambio euro / dollaro, poco al di sopra di 1,05 prima
dell’annuncio, invece di puntare verso la parità come molti si attendevano si è
invece rafforzato, assestandosi intorno all’attuale 1,09.
Il problema è
però un altro, molto più di fondo. Non c’è nessuna indicazione che il QE stia
conseguendo il suo obiettivo, quello di innalzare l’inflazione dell’Eurozona,
attualmente tendente a zero, verso l’obiettivo BCE di un livello “inferiore ma
prossimo” al 2%.
L’euro-QE soffre
del difetto di base (identificato da molti economisti e commentatori parecchio tempo addietro, peraltro) di attuare azioni finalizzate a immettere liquidità
nel circuito finanziario, senza però incrementare il potere d’acquisto
disponibile per aziende e famiglie.
Di conseguenza,
non c’è impatto apprezzabile su PIL e occupazione. L’Eurozona rimane bloccata
nell’attuale contesto di stagnazione, domanda depressa e disoccupazione
massiccia. E l’inflazione non risale.
Esistono
strategie alternative ? sì, e non sono neanche particolarmente complesse da
definire, né da attuare.
La più semplice
e diretta è un’azione di “Helicopter Money”. La BCE potrebbe immettere potere
d’acquisto – banalmente detto: soldi, euro – nelle tasche di cittadini e
aziende, e anche dei governi (a supporto di programmi di investimenti pubblici)
in misura adeguata a rivitalizzare domanda e PIL, e di conseguenza anche i
prezzi.
Questa
immissione di potere d’acquisto, tuttavia, non serve nella stessa misura in tutti
i paesi dell’Eurozona. E’ fortemente necessaria in Italia, ad esempio, meno in
Francia, poco o nulla in Germania. L’attuazione di interventi differenziati può
costituire una difficoltà, non tanto a livello tecnico quanto alla luce dei
trattati, e più ancora in sede di decisione politica. La Germania potrebbe
obiettare, in buona sostanza, che si sta creando potere di spesa in euro, indirizzandolo
ad alcuni paesi in misura più accentuata rispetto ad altri.
Un modo di
superare questa obiezione è che singoli paesi dell’Eurozona emettano Certificati di Credito Fiscale – titoli utilizzabili per ottenere sgravi futuri
nei pagamenti di imposte NAZIONALI – e li assegnino a cittadini e aziende,
senza contropartita.
I CCF sono uno
strumento di natura quasi-monetaria, e di fatto costituiscono una modalità per
attuare un’azione di “Helicopter Money” selettiva nell’ambito di un gruppo di
paesi che condividono la stessa valuta (senza però arrivare alla “rottura”
dell’euro).
La BCE potrebbe
a questo punto inserire i CCF nazionali nel ventaglio delle attività
finanziarie acquistabili nell’ambito del programma di QE.
I CCF avrebbero
un valore di mercato: gli assegnatari potrebbero convertirli in euro, o anche utilizzarli
come corrispettivo in operazioni di compravendita. Il potere d’acquisto in
circolazione aumenterebbe, con benefici su domanda, produzione e occupazione, e
conseguentemente anche sui prezzi – riportando così l’inflazione verso il
target BCE.
Non essendo una forma
di debito (non sono infatti soggetti a rimborso) i CCF non entrano nel computo
dei parametri rilevanti per il Fiscal Compact, per i patti di stabilità e per i
trattati UE in genere (in particolare, deficit pubblico / PIL e debito pubblico
/ PIL).
Ogni singolo
paese dovrebbe anche modulare le assegnazioni di CCF, attribuendone una parte
alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenute. Questo comporta
un immediato miglioramento di competitività ed evita che l’azione espansiva
sulla domanda interna produca squilibri nei saldi commerciali esteri. La
migliore competitività implica infatti maggiori esportazione nette, compensando
la crescita dell’import che, a parità di condizioni, si genera quando cresce la
domanda interna.
I CCF sono anche
utilizzabili per interventi di spesa sociale – reddito minimo, integrazioni
pensionistiche, miglioramento dei sussidi di disoccupazione – e per finanziare
o co-finanziare programmi di investimenti pubblici.
I paesi
emittenti di CCF possono inoltre adottare un sistema di “clausole di
salvaguardia non procicliche”. Se in un determinato anno gli obiettivi di
finanza pubblica risultano difficili da centrare, a causa di shock macroeconomici
esterni o per qualsiasi altra ragione, gli interventi correttivi possono
consistere non in tagli di spesa o in aumenti di tasse “secchi”, bensì
compensati da integrazioni nelle assegnazioni dei CCF.
In tal modo non
si toglie potere d’acquisto dal sistema economico, ma si sostituiscono (nella
misura necessaria) euro con CCF. Questo evita il gravissimo problema insorto dal 2011 in poi: le azioni di consolidamento delle finanze pubbliche effettuate
in vari stati dell’Eurozona hanno prodotto un forte inasprimento della
depressione economica, con pesanti conseguenze su PIL e occupazione. Il che ha minato
gli obiettivi stessi di riduzione del debito pubblico, e creato proprio gli
effetti deflattivi che oggi la BCE sta, con grandi difficoltà, cercando di
contrastare.
Va sottolineato
che il progetto CCF non richiede, per essere efficace, che i titoli emessi
vengano acquistati dalla BCE. Un titolo utilizzabile per ridurre pagamenti
altrimenti dovuti alle amministrazioni pubbliche nazionali, per tasse, imposte,
contributi o qualsiasi altra causale, ha valore a prescindere dal fatto che la
BCE sia disponibile ad acquistarlo. Il valore è infatti garantito
dall’accettazione da parte dello stato emittente.
Comunque,
l’inserimento dei CCF nel programma QE darebbe evidenza al fatto che si sta
procedendo in modo coordinato e costruttivo per avviare una forte ripresa
dell’economia dell’Eurozona, ponendo le basi per la sua stabilizzazione e
promuovendo, finalmente, occupazione e coesione sociale.
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