mercoledì 17 agosto 2022

Ancora sul riformismo

 

Commentando un mio recente post, Stefano Sylos Labini ricordava che il termine “riformismo” è in effetti entrato in voga, nel dibattito pubblico italiano, negli anni migliori dell’allora vituperata (e oggi molto ma molto rimpianta) Prima Repubblica.

I due partiti dominanti, DC e PCI, si caratterizzavano, negli anni Cinquanta e Sessanta, rispettivamente come “conservatore” e “rivoluzionario”.

La DC puntava sostanzialmente a mantenere inalterato, nelle linee generali, l’assetto economico-sociale. Il PCI, almeno sulla carta, a rovesciarlo.

Dico “sulla carta” perché in realtà era molto ben chiaro, ai dirigenti comunisti, che gli accordi di Yalta comportavano l’appartenenza dell’Italia al blocco atlantico. La rivoluzione si poteva teorizzare e auspicare: attuare no. Almeno per il momento.

Però negli intendimenti, quando fossero “maturate le condizioni politiche” (leggi di politica estera), il PCI almeno a parole era rivoluzionario.

Tra la conservazione e la rivoluzione si apriva a questo punto uno spazio intermedio, che fu occupato sostanzialmente dal PSI. Un progetto politico che mirava a cambiamenti sostanziali – potenziamento del welfare state, maggiori investimenti dell’industria di Stato, nazionalizzazioni – senza però proclamare la repubblica dei Soviet (o qualcosa del genere…). E questo spazio intermedio prese il nome di “riformismo”.

Per l’elettore, le scelte erano quindi sufficientemente definite.

Se eri conservatore, votavi DC o uno dei partitini laici.

Se eri rivoluzionario, votavi PCI.

Se eri riformista, votavi PSI.

Aggiungo, se eri “nostalgico” votavi MSI.

Ai tempi, in definitiva, cosa fosse e cosa desiderasse un “riformista” era chiaro.

Nel contesto odierno, in cui la rivoluzione non vuole farla più nessuno (nemmeno a chiacchiere), cosa sia un riformista e che senso abbia definirsi tale (visto, come si diceva nell’altro post, che tutti desiderano cambiare qualcosa ma nessuno vuole rovesciare l’ordinamento dello Stato) non lo è più.

Se tutti sono riformisti non ha più senso il termine, perché non si capisce quali sarebbero i “non-riformisti” a cui ci si contrapporrebbe.

In compenso è chiaro cosa intendono per “riformista” i giornaloni paludati. Fare tutto quello che chiedono la UE, la BCE e i potentati economico-finanziari. Che dei giornaloni sono gli editori, i finanziatori, i compratori di spazi pubblicitari, e quant’altro.

E naturalmente, sostenere al 100% il braccio operativo dei potentati, il PD.

 

2 commenti: