L’economia
italiana soffre di un pesante deficit di domanda aggregata, che determina livelli
di attività economica nettamente inferiori al potenziale produttivo del paese.
Il confronto tra PIL 2007 (anno in cui è stato raggiunto il massimo storico di
PIL reale) e 2016, disaggregati nelle loro principali macrocomponenti, lo rende
evidente.
Confronto
2016 vs 2007 a euro costanti 2016
Dati
2007 riportati a potere d’acquisto 2016 sulla base del deflatore PIL – Fonti:
ISTAT, MEF
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2007
|
2016
|
Variazione
|
Variazione %
|
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PIL
|
1.801
|
1.672
|
-129
|
-7,2%
|
Consumi
|
1.408
|
1.330
|
-78
|
-5,5%
|
Investimenti
|
389
|
284
|
-104
|
-26,8%
|
Domanda
interna (C+I)
|
1.797
|
1.614
|
-183
|
-10,2%
|
Export
|
494
|
502
|
7
|
1,5%
|
Import
|
500
|
444
|
-57
|
-11,4%
|
Saldo
commerc. estero
|
-6
|
+58
|
A nove anni di
distanza, il PIL reale italiano è (nonostante il timidissimo recupero iniziato
nel 2014) inferiore di circa 130 miliardi, pari a oltre il 7%. E la caduta è
interamente dovuta al crollo della domanda interna: l’export è l’unica
componente che evidenzia un segno positivo. Modesto fin che si vuole (+1,5% in
nove anni) ma comunque un segno più.
Le importazioni sono
cadute in misura simile e anzi un po’ più accentuata (-11,4%) rispetto alla
domanda interna (-10,2%), il che ha portato il saldo commerciale estero da un
leggero deficit (-6 miliardi) a una forte eccedenza (+58 miliardi). Il surplus
italiano 2016 è stato in effetti il terzo
al mondo per dimensione assoluta (dopo Germania e Cina) tra i paesi
“trasformatori” (tra quelli, cioè, non significativamente dotati di materie
prime e risorse naturali).
A volte si legge
che questo andamento dell’economia italiana rifletterebbe lo scollamento tra
aziende esportatrici, che hanno saputo vincere o quantomeno reggere la “sfida
della globalizzazione”, e il resto del sistema produttivo, che non si sarebbe
adeguato al nuovo contesto. Ma è una spiegazione che non tiene, appunto perché
ancora più della domanda interna sono, come visto, crollate le importazioni: il
che significa che nel complesso non si è verificato un fenomeno di perdita di
quota nel mercato interno a vantaggio di importatori “globalizzati”, o comunque
più efficienti. Molto più banalmente, il minor potere d’acquisto indotto prima
dalla crisi finanziaria mondiale, e poi dall’euroausterità, ha fatto calare la
domanda italiana di beni e servizi – a danno dei produttori italiani così come,
in misura analoga e anzi leggermente più accentuata, degli stranieri.
E’ del tutto
inverosimile che, se le aziende italiane vendono più di prima (poco, ma
comunque di più) a San Francisco, a Shanghai o a Sidney, abbiano subito uno
scadimento qualitativo o competitivo tale da produrre un calo a due cifre a
Treviso, a Pesaro o a Cosenza. Si vende di meno in Italia perché, banalmente, girano
meno soldi. Punto.
L’altro dato da
evidenziare è che la discesa della domanda interna (-10,2%) risente di un calo
dei consumi (-5,5%) ma ancora di più di un autentico crollo degli investimenti
(-26,8%). Niente di sorprendente, perché la depressione della domanda crea pesantissimi
disincentivi a investire: meno soldi per fare ricerca e aggiornamento
tecnologico degli impianti, meno necessità di espandere la (fortemente
sottoutilizzata) capacità produttiva. Ma quando si dice che le aziende italiane
devono recuperare produttività e competitività – quanto vi sembra plausibile
riuscirci in un sistema paese che investe in impianti e infrastrutture oltre
100 miliardi all’anno in meno rispetto al 2007 ?
Il recupero di un
adeguato livello di circolazione interna di potere d’acquisto, e quindi di
domanda, è imprescindibile per risolvere la crisi dell’economia italiana. La Moneta Fiscale permette di ottenerlo.
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RispondiEliminaPenso sia dovuto al fatto che il sito Istat "Rivaluta" è basato sull'indice dei prezzi al consumo, che è diverso dal deflatore del PIL. Quest'ultimo tiene conto di tutte le componenti del PIL (compresi investimenti e interscambio estero), non solo dei consumi.
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