venerdì 19 maggio 2017

L’inflazionistica Italia, ma anche no

Tra i preconcetti duri a morire, più o meno alla pari con l'idea che l'Italia non possa crescere a causa del debito pubblico, c’è quello che la libertà di emettere moneta per attuare politiche di espansione della domanda sarebbe una sciagura perché “il nostro paese non sa gestire la moneta”, “ha politici sempre pronti a spendere”, quindi si trasformerebbe “in un paese con tassi d’inflazione sudamericani per non dire africani”, eccetera.

Non è chiaro da dove nascano queste convinzioni. Non dai dati, come è facile constatare con un minimo di analisi.

Prendendo in considerazione un quarantennio (41 anni per la precisione, il periodo dal 1956 al 1996 anno di partenza e anno d’arrivo inclusi) di dati relativi all’indice dei prezzi al consumo, si scopre che l’inflazione italiana, rispetto a quella di un gruppo di altre economie avanzate, ha registrato le seguenti medie.

Indice medio dei prezzi al consumo, periodo 1956-1996
Germania             3,8%
Svizzera               3,9%
USA                    4,8%
Francia                6,1%
Svezia                  6,3%
Regno Unito        6,7%
Italia                    7,7%
Spagna                9,1%
Media Francia – Svezia – Regno Unito – Spagna        7,1%


Il motivo per cui l’analisi si ferma al 1996 è che dal 1997 si entra in “era-euro”: i tassi di cambio in quell’anno si sono assestati in modo definitivo, con scarti minimi, ai livelli in base ai quali le varie monete nazionali sono state poi convertite (appunto) in euro. Sono quindi rappresentativi del periodo in cui l’Italia aveva la sua moneta.

Nel 1997 si è deciso chi era dentro l’euro e chi era fuori, e a quali cambi, anche se i “cambi fissi irrevocabili” sono entrati formalmente in vigore solo il 1° gennaio 1999 (e l’euro come moneta fisica ha iniziato a circolare il 1° gennaio 2002). Dal 1997 nella sostanza, e dal 1999 anche nella forma, è in pratica finita (per sempre ? mah…) l’era dei riallineamenti valutari, quantomeno per i paesi che hanno aderito all’unione monetaria europea.

I dati medi appaiano molto alti in confronto alla situazione odierna, caratterizzata da tassi d’inflazione semimoribondi e addirittura dal rischio di cadere in deflazione.

In misura significativa, i dati sono peraltro influenzati dagli anni degli shock petroliferi, in particolare dal periodo 1973-1984, quando l’inflazione a due cifre affliggeva spesso e volentieri le principali economie industriali (non solo l’Italia). Infatti:

Indice medio dei prezzi al consumo, periodo 1973-1984
Germania             4,8%
Svizzera               4,5%
USA                    7,9%
Francia                10,6%
Svezia                  9,7%
Regno Unito        12,5%
Italia                    15,7%
Spagna                15,8%
Media Francia – Svezia – Regno Unito – Spagna        12,2%


Se escludiamo quegli anni dal campione abbiamo:

Indice medio dei prezzi al consumo, periodo 1956-1996 escludendo 1973-1984
Germania             2,6%
Svizzera               2,9%
USA                    3,0%
Francia                4,0%
Svezia                  4,6%
Regno Unito        4,2%
Italia                    4,4%
Spagna                6,4%
Media Francia – Svezia – Regno Unito – Spagna        4,8%


E’ riportato anche (per i vari periodi) un dato medio relativo a un quartetto di paesi. Le due principali economie europee dopo la Germania – ovvero la Francia e il Regno Unito. Un paese scandinavo – la Svezia. E un paese latino, che peraltro non viene in genere ritenuto essere tra i più “disordinati” sotto il profilo della gestione monetaria – la Spagna.

Ora, rispetto a questo quartetto di paesi, l’inflazione media italiana è stata superiore di soli sei decimi di punto (7,7% contro 7,1%) nel quarantennio esaminato, e addirittura più bassa (4,4% contro 4,8%) escludendo l’anomalo periodo delle crisi petrolifere.

En passant, anomalo soprattutto perché le economie oggi sono (in termini relativi) meno manifatturiere e più orientate ai servizi, e quindi è molto improbabile che pressioni dal lato delle materie prime possano produrre una situazione simile a quella degli anni Settanta.

Il punto chiave, ad ogni modo, è che l’Italia mostra dati in linea con quelli di un quartetto di importanti economie europee – di cui tre centro-nordico-continentali e una sola latina.

L’Italia sta in questo gruppo, dal punto di vista delle tendenze storiche dell’inflazione. Non sta né in Sudamerica né in Africa. E’, assolutamente, un paese europeo occidentale, con tendenze, riguardo alla dinamiche dei prezzi, del tutto normali.

E tutto questo, senza bisogno dell’euro…


2 commenti:

  1. Purtroppo, non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. E il mantra dell'Italia della "svalutazione furbetta", ci accompagnerà tutta la vita.
    Bisogna dire a riguardo, che la mala gestione della cosa pubblica da sempre, ha giocato un ruolo, soprattutto dal punto di vista psicologico, molto rilevante: è stato l'alibi che ha consentito alla seconda Repubblica di passare dalla padella alla brace dell'euro. Claudio Zanasi.

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    1. Mala gestione che poi, quando si vanno a vedere le cose un po' più da vicino, sta molto più negli aneddoti che nella realtà dei fatti: cfr il post 13.3.2016 per qualche esempio.

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