In buona sostanza, l’euro comporta (sul piano economico) due cose per l’Italia.
La prima è l’adesione a un sistema di regole che impediscono di utilizzare la leva fiscale per promuovere il pieno impiego. Detto altrimenti, un sistema di regole che implicano alti, immotivati livelli di disoccupazione e di sottoccupazione.
La seconda è una perdita di competitività, perché si utilizza una moneta più forte di quella che era, e sarebbe se esistesse ancora, la lira. Si utilizza quindi una moneta troppo forte per i fondamentali della nostra economia.
La debolezza della domanda interna prodotta dalle euroregole di bilancio spinge le aziende a cercare compensazioni sui mercati esteri. Chi può, spinge sull’export.
Ma questo è possibile solo se le retribuzioni rimangono compresse, perché il cambio fisso con il Nord Europa, in particolare con l’ex area marco, non lascia altre leve di azione efficaci. La competitività persa per il cambio viene recuperata "grazie" alla compressione salariale.
Per le aziende, almeno per alcune, la combinazione di tutto ciò è più sopportabile di quanto sembrerebbe a prima vista. Chi è orientato all’export campa, e anche discretamente e talvolta molto bene, visto che il costo del lavoro viene tenuto “sotto controllo” dall’austerità fiscale.
Per i lavoratori, quindi per i comuni cittadini, è un disastro.
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