martedì 29 settembre 2015

Svalutazione e salari reali: una distinzione necessaria



L’impatto della svalutazione del cambio sui salari reali è un tema molto dibattuto.  Un paese che svaluta la sua moneta guadagna competitività e – a parità di condizioni – è in grado di esportare di più e di recuperare quote di mercato interno, sostituendo importazioni con produzioni domestiche: la somma di questi due benefici supera in larga misura, generalmente, l’effetto dei maggiori costi per importazioni di materie prime e di altri beni e servizi non sostituibili con produzioni interne.

Detto ciò, spesso leggo articoli e commenti che fanno notare come il recupero di competitività esterna avvenga a fronte di un calo della capacità di spesa del paese che svaluta. Proprio l’effetto di sostituzione di una parte delle importazioni con produzioni interne è indicativo di questo effetto, si dice. Se trovo conveniente andare al mare in Sardegna e non più alle Maldive, è perché la vacanza alle Maldive è diventata più costosa: prima della svalutazione ci andavo (ed evidentemente ritenevo il bene “vacanze alle Maldive” di livello superiore), dopo non mi conviene più e quindi mi accontento della Sardegna. L’implicazione è che ho sostituito un prodotto di alto livello con uno di livello inferiore, quindi ho subito una perdita di potere d’acquisto effettivo.

Questa considerazione ha una sua logica, ma parte da un presupposto implicito: che la svalutazione sia un aggiustamento necessario perché il paese che svaluta deve correggere uno scompenso di saldi commerciali esteri (riequilibrare dei saldi negativi, in altri termini). Un paese che ha un alto deficit commerciale “vive al di sopra dei propri mezzi” perché spende più del suo reddito (attenzione, si parla di deficit commerciale, non di deficit pubblico ! vedi qui) e questo, in genere, non può proseguire all'infinito.

Per la verità ci sono varie situazioni in cui un paese può convivere senza grossi problemi con un deficit commerciale protratto nel tempo. Uno è il caso in cui la moneta di quel paese, o le passività finanziarie emesse nella moneta di quel paese, sono così ampiamente accettate e desiderate dal resto del mondo, che quest’ultimo è disposto a finanziare il deficit per un periodo di tempo indeterminato.

E’, sostanzialmente, la situazione degli USA. Spesso si attribuisce la capacità degli statunitensi di sostenere, per un periodo di tempo indeterminato, ampi deficit commerciali allo status di “valuta di riserva internazionale” che contraddistingue il dollaro. Io lo vedo più come una conseguenza delle dimensioni e dell’importanza del mercato USA. In pratica al produttore straniero si dice: qui c’è un grande mercato, puoi realizzare grandi fatturati. Io però pago dollari. Se ti va è così, se vuoi rinunciare all’opportunità… vedi tu.

In buona sostanza, non rinuncia nessuno.

Un’altra situazione è quella in cui un paese sostiene deficit commerciali per molto tempo in quanto sta crescendo più velocemente dei suoi partner. In pratica, si indebita con l’estero per finanziare il suo sviluppo interno. Questa è una situazione che può essere “sana”, o meno, a seconda della qualità e della sostenibilità dello sviluppo di quel paese. Dipende, in altri termini, dal fatto che la crescita interna sia frutto di investimenti in tecnologia, ricerca, produzioni di qualità, e non di bolle immobiliari o di consumi.

Tutto ciò premesso, prendiamo il caso di un paese come l’Italia: che non emetteva ai tempi della lira una moneta ambita, nel resto del mondo, quanto il dollaro (e in questo momento non ne emette proprio nessuna…) e che non cresce più velocemente dei suoi partner commerciali (anzi al contrario… questa, comunque, è possibile e augurabile che sia una situazione transitoria).

Quel paese ha un vincolo di equilibrio di saldi commerciali esterni. Se esporta meno di quello che importa, per definizione spende più di quello che produce, e ha necessità di riequilibrare la situazione.

Ora, il riequilibrio tra spesa e produzione può avvenire, evidentemente, in due modi: riducendo la prima o aumentando la seconda.

Tutto ciò conduce a capire che vanno distinte due fattispecie all’origine di un processo di aggiustamento mediante riallineamento valutario (leggi svalutazione).

La prima fattispecie è quella in cui il paese sta producendo quello che il suo sistema economico gli consente, ma ha un deficit commerciale. In questo caso non può riequilibrare la situazione dal lato della produzione, ma deve diminuire la spesa.

Quando l’Italia è uscita dallo SME e ha svalutato, nel 1992, non soffriva di un grosso sottoutilizzo delle sue risorse produttive. Doveva riequilibrare i saldi esteri, e la via era quella della diminuzione di consumi e investimenti interni.

Questo doveva necessariamente avvenire tramite una riduzione dei salari reali ? se ne può discutere, e sicuramente erano possibili processi di aggiustamento diversi da quelli allora attuati. Che l’aggiustamento gravasse sui salari e non sui profitti fu, sicuramente, la conseguenza dei rapporti di forza politici di quel momento. Ma che dovesse esserci un qualche impatto negativo, almeno nell’immediato, sulla capacità di spesa TOTALE del paese, mi pare indubbio.

Oggi l’Italia si trova in una situazione completamente diversa. Nel 2014 ha ottenuto un saldo commerciale estero positivo per quasi il 3% del PIL. Nello stesso tempo, il PIL è stato inferiore del 10% rispetto al 2007, la produzione industriale del 25% e i posti di lavoro sono un milione circa in meno.

E’ chiaro che oggi l’Italia non ha il problema di “vivere al di sopra dei propri mezzi”. In realtà produce più di quanto spende (saldi commerciali esteri positivi). Il problema dell’Italia è che utilizza la capacità produttiva del suo sistema economico molto al di sotto delle potenzialità.

L’Italia ha bisogno di immettere potere d’acquisto e domanda nel sistema economico per riattivare le risorse produttive oggi inutilizzate e riassorbire la disoccupazione. E ha bisogno della sua moneta, o di qualcosa che ne svolga le funzioni (come i CCF) per attuare questa azione espansiva sulla domanda.

Detto questo, è anche utile uno strumento di recupero della competitività per evitare che, oltre un certo livello, l’espansione della domanda produca saldi commerciali negativi. Questo è il motivo per cui nel progetto CCF (vedi punto 9, qui) una parte delle erogazioni sono previste andare alle aziende per ridurre il costo del lavoro effettivo (senza penalizzare le retribuzioni nette). E anche per cui, in caso di uscita dall’euro “secca”, una forte azione espansiva sulla domanda interna rende utile o necessario un certo livello di riallineamento del cambio.

Tuttavia è importante sottolineare che oggi l’Italia non deve ridurre la spesa per riportarla al livello della produzione. La necessità è aumentare domanda, spesa e produzione INSIEME.

E se la spesa può e deve aumentare, viene a cadere la necessità di (o il pretesto per...) comprimere i salari reali.

Mi fermo qui per il momento, anche se è un tema su cui c’è molto altro da dire.

Sottolineo però che nell’analizzare le interazioni tra svalutazione e salari reali, o più in generale tra svalutazione e spesa interna, è fondamentale (ma non lo vedo fare, almeno negli articoli e nei dibattiti che mi sono capitati sott’occhio) distinguere tra

Svalutazione effettuata per RIEQUILIBRARE i saldi commerciali esteri, IN ASSENZA di un forte sottoutilizzo delle risorse produttive

e

Svalutazione effettuata per EVITARE lo squilibrio dei saldi commerciali esteri, in presenza di un’AZIONE ESPANSIVA DELLA DOMANDA INTERNA che innalza l’impiego di risorse produttive oggi fortemente SOTTOUTILIZZATE.

La situazione del 1992 era la prima, quella del 2015 è (sarebbe) la seconda.

17 commenti:

  1. la tesi dell'articolo è vera solo se esistesse concorrenza per livellare i prezzi come in spagna dove alcune regole di liberalizzazioni sono state effettuate. in caso contrario la svalutazione competitiva fatta in un paese con economia bloccata da leggi e caste come l'italia farebbe salire i prezzi rendendo inutile la svalutazione stessa abbassando appunto il potere di acquisto. lo stato e le caste sono due aspiratori di liquidità con potere di mercato e quindi di prezzo e quindi maggiore liquidità significa solo maggiori prezzi e tasse per maggiore spesa pubblica. si arricchiscono coloro che sono già ricchi e non investono perché non hanno bisogno di investire visto che la quota di mercato è fissa per legge.

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    1. La Spagna che lei cita nel solo triennio 2011-2013 ha registrato un deficit pubblico mediamente pari al 9%, contro il 3% dell'Italia. Rapportato al PIL italiano, e' come se l'Italia avesse potuto effettuare azioni di sostegno della domanda - minori tasse o maggiore spesa - per 90 miliardi ALL'ANNO. E questo senza tener conto del rientro fiscale prodotto dal maggior PIL. A parità di condizioni, l'economia italiana sarebbe sulla luna... Altro che "la Spagna si è ripresa grazie alla riforma del lavoro". Quella con ogni probabilità è stata un freno.

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    2. la spagna si trovava al 36% di debito pil e aveva spazio per fare deficit. l'italia si trovava già a 130 e non aveva spazio. questo dimostra che il debito privato è meno pericoloso di quello pubblico perché il cittadino deve darsi da fare. quello pubblico invece permette ai cittadini di bloccare un intero paese. se la spagna non si ferma sotto il 100% finirà bloccata come l'italia ovvero come il giappone.
      .

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    3. Bravo che ha fatto l'esempio del Giappone: sta sopra il 200% ma fa le politiche che gli pare perché il debito e' emesso NELLA SUA MONETA. Questo è uno dei problemi fondamentali dell'euro. Comunque, nel caso dell'Italia, ostinarsi a tenere il deficit al 3% in un periodo di domanda depressa ha prodotto una caduta di PIL che ha fatto SALIRE, non scendere il rapporto. Quindi le politiche adottate dall'Italia (su "ispirazione" UE) sono state sbagliate anche sotto questo profilo. Vedi post del 29.12.2013.

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    4. moneta nazionale o federale sempre debito pubblico è. se l'europa non ha un debito condiviso e quindi una moneta vera è colpa degli europei. non dovete alzare il deficit pubblico perché questa carta ve la siete giocata negli anni passati e ci avete assistito l'economia. dovete alzare quello privato che si trova ancora a livelli accettabili e riabbassare quello pubblico coi tagli ma per fare in modo che quel credito vada in investimenti e posti di lavoro dovete creare appunto le condizioni che però non volete creare per ovvi interessi. in spagna l'hanno fatto ma dovranno renderlo strutturale e non richiuderlo come fece purtroppo l'italia.

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    5. Guardi che e' proprio il debito privato che ha fatto esplodere la crisi Lehman, nel 2008...

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    6. perché hanno esagerato al 200%. tutto ha un limite. l'italia si trova all'80-90 e ha ancora molto spazio per alzarlo anche fino al 110-120 che viene considerato accettabile. abbassando però quello pubblico. ma siccome ci sono interessi a reprimere l'economia reale e a finanziare quella pianificata ecco che al massimo vi danno le briciole per andare al centro commerciale ma nulla di più e i vostri figli devono emigrare. il debito privato non è un problema perché i valori cadono sui mercati mentre quello pubblico è fisso e sale sempre e può essere fermato solo con l'austerità che però non riesce ad abbassare i prezzi ma semplicemente esclude metà popolazione dai consumi e dal lavoro.

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    7. Il debito pubblico e' ricchezza privata. Tagliare il primo comporta inevitabilmente tagliare la seconda e incrementare il debito privato.

      Ps professore complimenti x il post, non avevo ancora riflettuto sui 2 scenari (2015 e 1992) come qui c'è li propone

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    8. Se non aveva riflettuto sulle differenze tra 1992 e 2015 e' in ottima compagnia. Mi sarà sfuggito, ma non l'avevo ancora visto fare da nessuno...

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    9. x grossetano
      è ricchezza privata per chi ottiene una entrata dallo stato, per tutti gli altri sono tasse senza entrate cioè uscite. tagliare il debito pubblico non significa tagliare quello privato se appunto esistesse un mercato di capitali senza alcuna necessità degli intermediari attuali e una legislazione come altri paesi.

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    10. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  2. In caso di uscita secca dall'Eurosistema e nell'ipotesi in cui la nuova Lira fosse controllata da un sistema del credito pubblico con reitroduzione della legge bancaria, il problema della svalutazione sarebbe di brevissimo periodo e trascurabile. Sarebbero le stesse banche centrali dei nostri competitor internazionali a sostenerne il corso per contrastare la competitività delle nostre produzioni. La letteratura indicae la quota di svalutazione trasmessa al sistema dei prezzi in una forbice che va dal 3 al 5%. Se per ipotesi la nuova Lira svalutasse del 30% (come quota dell'inflazione cumulata negli anni di permanenza nell'Euro), l'inflazione indotta da svalutazione sarebbe al massimo del 1,5-2%; cioè quanto ci serve per rivitalizzare gli investimenti nell'economia reale. Un problema dunque inesistente che come lei ha sottolineato sarebbe accompagnato da un espansione della domanda interna e non da una contrazione in quanto esportatori netti. Sarei felice finalmente di rivedere automobili e veicoli commerciali di produzione nazionale viaggiare sulle nostre strade, di riprendere a mangiare frutta e verdura prodotte in Italia e di vestire nuovamente abiti confezionati nel nostro paese, telefonare con uno smartphone italiano e guastarmi un film da un televisore Italiano seduto su una sedia fabbricata in Italia perchè più convenienti dei prodotti esteri. Se a una lieve caduta del potere d'acquisto dei redditi corrisponde la piena occupazione significa che in termini reali i redditi procapite saranno raddoppiati. Dove sta il problema ? Certo che c'è. La speculazione finanziaria ne uscirebbe con le ossa rotte, gli importatori malconci e i delocalizzatori sarebbero costretti a tornare in patria. Non li piangerà nessuno.

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    1. Infatti l'uscita secca dall'euro non pone nessun problema relativamente ai temi che lei menziona. I problemi sono il consenso politico, l'atteggiamento della pubblica opinione, le complicazioni legali e il rischio di turbolenze sui mercati finanziari. Questi ultimi due problemi sono forse sopravvalutati, ma non è possibile esserne certi a priori. La proposta CCF - affiancamento di un nuovo strumento quasi-monetario e non rottura - nasce dal desiderio di superare questi fattori di incertezza.

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  3. "Quando l’Italia è uscita dallo SME e ha svalutato, nel 1992, non soffriva di un grosso sottoutilizzo delle sue risorse produttive"

    Su che base si può affermare che non c'era sottoutilizzo di risorse?
    L'andamento della disoccupazione in quel periodo non era lontano da quello attuale come si vede da questo grafico (link).

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    1. Le statistiche sulla disoccupazione sono fuorvianti. I criteri di calcolo e la definizione di disoccupato (vs inattivo, non appartenente alle forze di lavoro) cambia nel tempo e cambia da paese a paese. Tra il 2007 e il 2014 l'Italia ha sofferto un calo di PIL del 10%. Niente di neanche lontanamente paragonabile al 1992-3, quando si verificò una recessione (al confronto) blanda, dopo anni di crescita.

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    2. Ok, nel 2015 ci sono evidenze del fatto che la capacità produttiva è sottoutilizzata (per via del calo del PIL) ma riguardo al 1992 non possiamo escludere (anche in assenza di dati affidabili sulla disoccupazione) che la crescita degli anni precedenti fosse comunque stata inferiore alle potenzialità del paese e che dunque ci fossero margini di manovra per espandere ulteriormente la produzione. Del resto l'adesione allo SME dal 79 in poi imponeva all'Italia l'adozione di politiche fiscali restrittive che possono aver frenato la crescita e prodotto disoccupazione (pur senza produrre una recessione come nel 2008).

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    3. Niente di paragonabile ai requisiti del trattato di Maastricht. Inoltre, non c'era stato nulla di confrontabile alla "crisi Lehman" del 2008. In effetti del 10% del calo di PIL sofferto dall'Italia, circa metà è attribuibile a quella, l'altra metà all'austerità introdotta nell'Eurozona a partire dal 2011.

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