Ogni tanto mi
imbatto in commentatori che negano la possibilità di rilanciare l’economia di
un paese mediante politiche di sostegno della domanda, a meno che questa azione
non sia coordinata con qualcosa di analogo effettuato dai suoi principali
partner commerciali.
Se il
coordinamento non ci fosse, si dice - se, cioè, un paese espandesse la propria
domanda interna mentre gli altri non lo fanno - non otterrebbe ripresa
economica ma inflazione, e in aggiunta squilibri nei saldi commerciali esteri e nella
bilancia dei pagamenti. Come esempio di una situazione del genere, si cita
spesso il primo periodo della presidenza Mitterrand in Francia, tra il 1981 e
il 1983.
Qui, in realtà,
siamo in presenza di un fraintendimento del pensiero keynesiano. Le politiche
attive di sostegno della domanda non sono la soluzione per produrre sempre e
comunque accelerazione della crescita economica. Sono il modo per conseguire,
con grande efficacia e in tempi anche rapidi, il recupero dell’economia da una
situazione in cui la domanda è caduta nettamente al di sotto della capacità
produttiva del sistema.
Era la situazione
di molte economie avanzate in conseguenza della Grande Depressione negli anni
Trenta, ed è la situazione di molti paesi oggi, per effetto della crisi Lehman
del 2008 e della crisi dell’Eurosistema esplosa (e tuttora non risolta)
principalmente a partire dal 2011.
Il contesto dei
primi anni Ottanta era profondamente diverso. Il mondo economicamente
sviluppato si trovava in una situazione di malessere a causa degli shock
petroliferi del 1973 e del 1979, che avevano fortemente incrementato il costo
di una materia prima essenziale (allora ancora più di oggi) e quindi ridotto il
valore aggiunto (equivalente al PIL) potenziale dei paesi industrializzati.
Il problema poteva
essere affrontato in due modi.
Ridurre la domanda
aggregata mediante politiche deflattive (tagli di spesa pubblica o incrementi
di tasse) riportandola al livello del diminuito PIL potenziale. In tal modo non
si sarebbe avuta inflazione ma depressione economica: i tagli avrebbero contratto il reddito nominale di famiglie e imprese, innescando una catena di insolvenze e mandando in crisi il sistema creditizio.
Oppure, in
alternativa, mantenere invariati i livelli di domanda aggregata e accettare
alti livelli di inflazione, in quanto il potenziale di offerta si era ridotto (e
la domanda nominale era quindi superiore all’offerta, innescando crescita dei
prezzi).
La via più sensata
e socialmente meno deleteria era quest’ultima, e per fortuna fu quella adottata.
Produsse alcuni anni di inflazione a due cifre, ma si evitarono pesanti
contrazioni dell’attività economica e dei livelli di occupazione.
Venendo all’episodio
francese del 1981-1983, Mitterrand affrontò la situazione di una crescita più
lenta che nel passato pensando di trovarsi di fronte a un problema di domanda.
Era invece un tema di offerta. Il valore aggiunto potenziale, equivalente al
PIL potenziale, del sistema economico era stato frenato dall’impennata dei
costi produttivi. Ma non esistevano grossi livelli di sottoutilizzo del
potenziale economico del paese (ancorché ridotto dai maggiori costi per materie
prime).
Le politiche
francesi di quegli anni non funzionarono non perché fossero “keynesismo in un
solo paese” ma perché si trattò di “keynesismo applicato nel momento
sbagliato”. Non era keynesismo, in effetti, ma un suo fraintendimento.
Nel momento in
cui, invece, si è effettivamente in presenza di un pesante sottoutilizzo di
capacità produttiva, le azioni di sostegno della domanda funzionano senza
problemi. La maggior domanda riattiva produzione e occupazione. Non si creano
tensioni indesiderate sui prezzi perché domanda e offerta recuperano di pari
passo.
Se un paese
rilancia la domanda e i suoi partner no, c’è effettivamente la possibilità di
creare scompensi nei saldi commerciali esteri. Ma questo può essere evitato
senza grandi difficoltà riallineando il cambio, oppure - nel contesto dell'Eurozona, dove il riallineamento di un singolo paese è impossibile senza attuare una rottura della moneta unica - dedicando una parte dell’azione
espansiva alla riduzione del cuneo fiscale (un punto essenziale, non a caso,
del progetto Moneta Fiscale).
In presenza di un
potenziale produttivo inespresso, non esistono vincoli tecnici che impediscano
di riportarlo a regime, riassorbendo il sottoutilizzo di capacità delle aziende
e, soprattutto, la disoccupazione prodotta dalla crisi. A prescindere che l’azione
espansiva della domanda, effettuata da un paese, sia o meno imitata dai suoi
vicini e dai suoi partner d’affari.
Grande articolo.
RispondiEliminaCosa ne pensa di questo articolo?..e se facciamo bancarotta cosa secondo lei succederà ?
RispondiEliminahttp://vocidallestero.it/2016/12/22/zh-fatevi-forza-preparatevi-alla-bancarotta-dellitalia-a-causa-delleuro/
Shardan
ps: ho nostalgia di "anonimo neoliberista" e dei suoi commenti ;-)si è volatilizzato....
Sì in effetti... era un interlocutore tenace e un ottimo sparring partner ! se passa di qui e gli torna voglia di riaccendere il dibattito, è più che gradito.
EliminaSe facciamo bancarotta ? che si esce dall'euro per breakup e si converte tutto in lire. E in lire si pagano i debiti. Non è la mia soluzione ideale, ma molto meglio che andare avanti con questa situazione delirante.
Credo che la visione del Keynesismo in un solo paese sia superata.
RispondiEliminaA mio avviso, valgono le considerazione conclusive di A. Bagnai (non certo un anti Keynesiano e anzi un sostenitore del cambio flessibile e della sovranità nazionale sia in campo monetario e fiscale) che chiosa:
"si potrebbe realizzare il «keynesismo in un solo paese?» In altri termini: uscire dall’euro è una condizione necessaria (o, se si vuole, la disgregazione dell’euro è un evento inevitabile), ma non sufficiente a ricondurre un’economia pur non trascurabile come quella dell’Italia su un percorso di crescita equa e quindi stabile. Per farlo, bisogna anche ripensare al ruolo dello stato nel sistema economico, sia come soggetto attore (in particolare nel settore del credito e più in generale nella gestione del circuito del risparmio) sia come soggetto regolatore. In un sistema economico sempre più interconnesso, i grandi arbitraggi tra il mercato, vale a dire la dimensione transnazionale, e lo stato, vale a dire la dimensione nazionale, richiedono necessariamente uno sforzo di cooperazione internazionale. Non si può che esprimere ancora una volta, a guisa di conclusione, la speranza che questa cooperazione possa incominciare senza attendere una esplosione di violenza."
Cooperazione internazionale ben indirizzata (non certo quella che abbiamo attualmente nella UE) sì, ma non c'è motivo per cui gli stati non possano tornare, oggi, già sulla base di politiche concepite e attuate individualmente, ad essere soggetti "attori e regolatori" quantomeno con lo stesso livello di efficacia del periodo 1945-1975: il migliore, economicamente parlando, della storia europea.
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