Il 1° gennaio
1999 l’Italia è entrata nella moneta unica in base a un rapporto di 1936,27 lire
per un euro. Il problema all’origine dei guai successivi, si dice spesso, è che
quel rapporto era sbagliato, in quanto troppo forte per l’economia italiana.
In realtà non c’è
motivo di pensarlo. Il cambio era in linea con quello di mercato di quel
periodo e degli anni immediatamente precedenti. E in quegli anni l'economia italiana registrava tassi di crescita del PIL e della produttività in linea con
gli altri paesi dell’Eurozona, trovare lavoro non era particolarmente problematico,
e non si registravano deficit negli scambi con l’estero.
L’errore non
stava nel cambio di partenza, ma in una serie di caratteristiche del sistema-euro
che lo rendono tremendamente rigido e inefficiente:
PRIMO, un cambio
equilibrato nel 1999 ha buone probabilità di non esserlo più qualche anno dopo,
perché i tassi d’inflazione e di crescita del costo del lavoro per unità di
prodotto divergono da paese a paese.
SECONDO, il
debito pubblico degli stati che hanno fatto il loro ingresso nell’euro è stato
convertito ed è quindi diventato, a tutti gli effetti pratici, debito espresso
in moneta straniera. La differenza è enorme: il debito in moneta estera non è
garantito dalla potestà di emissione monetaria dello stato emittente (o della
sua banca centrale, che rispetto allo stato può avere livelli d’indipendenza
più o meno elevati, ma ben difficilmente potrà mai consentire il default sulle
obbligazioni statali espresse in moneta nazionale). Questa garanzia la BCE NON
la forniva agli stati dell’Eurozona, tanto è vero che la Grecia è andata in
default sul suo debito pubblico. E l’assenza della garanzia BCE esponeva i
titoli di stato dei vari paesi ad attacchi speculativi, che si sono manifestati
soprattutto con la “crisi dello spread” del 2011.
TERZO, dal 2012 il
“whatever it takes” di Draghi ha modificato questa situazione trasformando la
BCE in “lender of last resort”, cioè in garante dei debiti pubblici degli
stati: ma solo a prezzo di “condizionalità” non precisate a priori che
comunque, di fatto, legano le mani alle politiche economiche degli stati e
tolgono autonomia nell’effettuazione di azioni anticicliche e di
stabilizzazione del proprio sistema economico, finanziario e bancario.
L’economia
italiana può avviare una forte ripresa immettendo domanda nel sistema economico
e dirigendola verso i consumi, gli investimenti e la competitività delle
aziende: quindi azioni di spesa, di detassazione, di riduzione del cuneo
fiscale. Ma l’architettura dell’attuale eurosistema lo impedisce.
La soluzione
richiede l’uscita da questi vincoli. E poiché a livello politico non esiste
alcun consenso per rinegoziare i trattati, come vie percorribili rimangono:
la spaccatura
dell’euro, che presenta però due problemi: complessità di attuazione e - forse
più ancora – difficoltà di formare il necessario consenso all’interno del paese
o
l’introduzione di un titolo fiscale che consenta le necessarie politiche anticicliche, di rilancio
e di stabilizzazione, senza incrementare il debito pubblico (inteso come il
debito che, essendo da ripagare in euro, genera rischi d’insolvenza e quindi di
instabilità finanziaria).
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